S T O R I A    E   C U L T U R A    D E L L A    C I T T A'    D I   C A S O L I

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I L    C A S T E L L U M   D E   P R A T A

 E   L E   R  E L I Q U I E   D I   S A N T ' I L A R I O N E

ATTENDERE, CARICAMENTO DELL'IMMAGINE IN CORSO

Capitolo I - Origine del "Movimento Eremitico Abruzzese"


Più di mille anni fa e precisamente intorno all'anno 980, alcune Comunità di Monaci italo-greci di rito bizantino, in seguito ad eventi traumatici che li costrinsero ad abbandonare i loro monasteri d'origine,  sono venute a stabilirsi  in Abruzzo. 

Calabria

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   Parliamo propriamente di "Monaci Basiliani" venuti dall'Oriente che vivevano in Calabria nel Monastero di S. Martino di Canale, una frazione del Comune di Pietrafitta (Cosenza) e nel Monastero  di Santa Maria di Pèsaca  in Taverna (Catanzaro), fondato nel 970 dagli stessi monaci. Nell'anno 977 queste comunità di monaci furono costrette ad abbandonare il Monastero di S. Martino di Canale  per  sottrarsi  alle    invasioni  dei 

saraceni, ventinove confratelli, fra i quali il beato Nicola Greco 

ed il loro Archimandrita San Ilarione,  insieme  ad  altri compagni  del Monastero  di Santa Maria di Pèsaca, fra i quali San Falco, dopo un lungo peregrinare  dalle terre calabre, scelsero di rifugiarsi alle pendici orientali della Maiella lungo la valle dell'Aventino, in provincia di Chieti, nel Castellum de Prata, presso Casoli, e rifondare un nuovo Monastero su un terreno acquistato dal conte di Chieti Trasmondo I .   

Abruzzo

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   Il monachesimo orientale attraverso tre ondate migratorie veniva ad insediarsi nel meridione d'Italia, il primo fenomeno si ebbe intorno al settimo secolo con l'espansione musulmana e le successive persecuzioni persiane soprattutto islamiche le quali, mentre fecero inaridire nei territori conquistati la vita monastica, costrinsero all'emigrazione molti monaci greci, che rafforzarono le comunità balcaniche e russe e svilupparono il monachesimo orientale in Sicilia e nell'italia meridionale. 

   Nell'anno 726 l'Imperatore romano d'0riente Leone III Isaurico (717-740), capo anche della Chiesa Orientale, emanò un editto secondo il quale dovevano essere distrutte tutte le immagini di qualsiasi genere, raffiguranti Dio, la Madonna e Tutti i Santi in ogni luogo pubblico, furono ricoperti di calce gli affreschi, si bruciarono i manoscritti, furono distrutte reliquie e statue; secondo l'editto, inoltre, nessuno avrebbe potuto realizzarne di nuove. Gli storici parlano  di  lotta  iconoclasta  (da 

La Trinità

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eikòn, immagine e kezzein, distruggere) che da quell'anno sconvolse quelle lontane contrade costringendo i monaci basiliani che non vollero accettare questa drastica imposizione, al martirio oppure alla fuga nell'impero dell'occidente.

   Secondo l'insegnamento di S. Basilio, infatti, l'immagine, al di là dell'iconolatria, rappresenta uno strumento di evangelizzazione che poteva facilmente comunicare alle masse dei fedeli la parola di Dio. In realtà l'iconoclastia fu anche un'occasione per privare i monaci del potere che avevano acquisito nel corso del tempo. 

   Nell'ottavo secolo si determinò una seconda ondata migratoria, la Sicilia e le estremità più orientali d'Italia, dettero asilo ai monaci Greci i quali si sistemarono stabilmente diffondendo religione e regole di vita. In queste terre i seguaci di S. Basilio  eressero magnifici  istituti e fondarono scuole di profondo sapere e diedero avvio all'imponente fenomeno che prese il nome di Monachesimo italo-greco. 

Italia bizantina e longobarda tra la fine del VI secolo e la metà del VIII secolo

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   Gli stessi basiliani costituirono nei luoghi in cui ricevettero accoglienza, comunità improntate nell'opera della diffusione della fede, della carità e dell'amore verso il prossimo, impegnandosi fortemente nel lavoro. Attività privilegiata dei basiliani fu l'agricoltura. I monaci con l'esempio della parola, insegnarono a lavorare la terra alla gente del luogo e a trarne il massimo prodotto. Curarono il prosciugamento delle paludi e destinarono a terre incolte, la coltura dell'olivo, della vite e del grano, agevolando la piccola proprietà contadina, e resero addirittura di uso comune i due contratti di enfiteusi (diritto di godere un fondo altrui con l'obbligo di apportare migliorie e corrispondere periodicamente un canone), inoltre, fondarono i casali, primordiali centri urbani di piccola entità, avendo ottenuto dai Basilei la facoltà di "conducere homines" nelle terre, chieste e ottenute in concessione (Tratto da "Castrignano dei Greci" di Angiolino Cotardo"). 

   Nel IX-X secolo, le incursioni dei Saraceni si intensificarono e nel 975 fu invasa la città di Cosenza, l'antichissimo convento di San Martino di Canale nella vicina Val di Crati, non fu risparmiato. Questo monastero con annessa chiesa di fondazione medioevale, di stile Bizantino, subì gravi danni e costrinse il loro Archimandrita e i suoi confratelli Basiliani a rifugiarsi  nelle terre longobarde. 

L'Italia nei secoli IX - X e le invasioni saracene

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Resti del Monastero di San Martino di Canale

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   Il monastero originariamente era formato dall'abside e da due cappelle laterali delle quali ne è superstite solo una. La sua importanza è dovuta anche alla circostanza che vi trovò la morte nel 1202 l'Abate Gioacchino da Fiore, avvenuta mentre dirigeva dei lavori di ristrutturazione.   

Questa Chiesa-Monastero, nel 1664,  molto probabilmente era sconsacrata e fu trasformata in abitazione, ricovero e magazzino. Dell'antica chiesa rimane solo l'Abside di forma semicircolare (note di Luigi Bilotto). Scrive la studiosa calabrese  Rosanna Tedesco, in merito al Monastero di S. Martino di Canale: <<...degli edifici non rimane quasi più nulla. Pesanti rimaneggiamenti del XIX secolo, hanno ridotto le dimensioni della chiesa consentendo la sopravvivenza di pochissimi elementi architettonici originari: l'abside semicircolare sporgente all'esterno e alcune monofore a feritoia fortemente strombate verso l'interno. L'azione del tempo e l'incuria degli uomini, hanno fatto il resto. Nel 1995 la Soprintendenza dei B.A.A.A.S. ha dichiarato il Monastero di S. Martino di Canale  "d'interesse particolarmente importante", ma considerato lo stato dell'edificio, si impongono interventi urgenti di recupero, che richiedono l'impegno delle istituzioni e insieme degli uomini di cultura sensibili alle vicende del patrimonio culturale del nostro territorio. Il Monastero va tutelato nei suoi aspetti strutturali, sondato e indagato per accrescere i dati a disposizione di tecnici e studiosi; a questo però, deve affiancarsi un processo di riappropriazione culturale più ampio che restituisca al monumento la sua significatività, che lo riconnetta alla storia e all'altissima esperienza spirituale che l'ha prodotto, che possa generare interessi e conoscenze presso un pubblico non solo d'élite.>>  

     Anche nell'antica città di Taverna detta in greco "Trischene" ed in latino "Tres Tabernae", i Saraceni intorno all'anno 977 portarono distruzione e morte, il Monastero Basiliano di Santa Maria di Pèsaca fu saccheggiato e incendiato  dalle loro scorribande. Oggi è ancora visibile la conformazione perimetrale del Monastero con annessa Chiesa, con tracce di divisione interna e in alzato l'imposta di un'arcata in prossimità dell'apertura  che doveva costituirne l'entrata; della chiesa, che doveva sorgere sul pianoro antistante il monastero, rimane soltanto un  muro alto circa 10 m con due finestre dal coronamento romanico facente parte probabilmente dell'originario campanile. 

    Il materiale edificatorio è costituito da pietrame grezzo della zona misto a rottami di coccio e non si notano tracce di pietre squadrate o di mattoni. La ricostruzione dell'impianto originario  è possibile grazie ad un manoscritto della fine del 600 conservato presso l'archivio di stato di Catanzaro.  

Resti del Monastero di Santa Maria di Pèsaca

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   Le comunità italo-greche che vi operavano e che scamparono alle incursioni, furono costrette ad un'ennesima migrazione e a darsi alla fuga nel Ducato longobardo di Salerno attraverso l'antica via romana Popilia sotto la guida del loro Archimandrita  Sant'Ilarione. I basiliani furono ben accolti nel Ducato, grazie anche all'oculata gestione politica dei Prìncipi Longobardi, i quali si resero conto dell'opportunità che veniva offerta dalla presenza dei monaci in quell'angolo sperduto del loro principato, per lo sviluppo economico e sociale di quei territori; furono dunque i Principi di Salerno ad estendere la loro "tuititio", la loro protezione ai monaci italo-greci che sempre più numerosi giungevano "en tois meresi ton prinkipion" nella regione dei Prìncipi, come si legge in un antico Sinassario di Grottaferrata. 

Il Castello di Septe

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   Dopo un periodo di accoglienza nel ducato di Salerno, essi si diressero nel Sannio,  nel Ducato Longobardo di Benevento, dove stabilirono degli accordi per incontrare il conte di Chieti Trasmondo I. Mediante quelle strade romane e tratturi secolari, che nel  processo di evangelizzazione, furono allo 

stesso tempo vie di comunicazione, di scambio materiale e veicolo di movimenti ideali e spirituali, attraversarono le antiche città di Isernia, Sepino ,  Boiano , S. Pietro  Avellana  ecc., per arrivare fino alla residenza estiva del Conte, nel Castello di Septe, ubicato su un piccolo promontorio nella parte occidentale della Valle del Sangro con l'omonimo fiume ove ne domina la valle. Il Castello di Septe era uno tra i più famosi castelli medioevali dei Frentani, denominato prima Septa, poi Septe ed infine Sette, fu costruito dai Longobardi nel VI secolo ed era un vero e proprio centro fortificato e presidio militare con annessa fabbrica di armi. 

    Il Conte di Chieti di origine longobarda, Trasmondo I (950-987), era noto anche per aver donato nell'anno 972-973 alla piccola chiesa di S. Giovanni numerosi beni alla foce del Sangro, fra cui la stessa foce del fiume con il diritto di esigervi pedaggio per il guado e per il traghetto, metà delle rendite dell'antistante Portus 

San Giovanni in Venere

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Veneris, unitamente ad un vasto terreno che aveva inizio dal vicino Vicus di origine antica noto in altre fonti medievali come Vicus Veneris (Roberta Odoardi, "Saggi archeologici nel Complesso Monastico di S. Giovanni in Venere")  e dare inizio, così, alla fondazione della celebre Abbazia di S. Giovanni in Venere.     

   Il Conte Trasmondo I, offrì alla comunità di monaci italo-greci che era appena arrivata, l'opportunità di stabilirsi nel feudo di Prata ed edificarvi un nuovo monastero. In una nota in merito, il canonico Cesare Falcocchio in "Compendio  della vita e miracoli del glorioso S. Falco Eremita" (Napoli 1847) così ebbe a commentare: << Un tal luogo, idoneo al loro aspro ritiramento fu concesso dai signor Crentidio Trasimondo conte di Chieti  col consenso della  signora Adoranda sua madre 

Il Feudo di Prata e la Torretta

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mediante lo sborso di cento monete d'oro raccolte dal Santo Abate nei vicini castelli>>.  

    La Torre di Prata in località "la Torretta", era un antico avamposto militare di epoca longobarda risalente al VI-VII secolo. Infatti, l'espansione dei Longobardi di Benevento nell'ambito della provincia tardoantica del Sannio, con cui presto vollero identificare il loro ducato, venne ad essere progressiva, tanto da inglobare prima l'interno del Chietino e poi verso la metà del VII secolo la fascia costiera sino ad allora rimasta sotto il controllo bizantino. 

   La prima notizia dell'esistenza della località denominata Prata, risale al nono secolo ed è registrata nel Memoratorium dell'abate Bertario che resse Montecasino dall'anno 856 all'anno 883.


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   Il "Memoratorium" dell'abate Bertario dettato fra l'867 - 868 è una elencazione assai particolareggiata dei possedimenti appartenenti all'abbazia di Montecassino dell'Abruzzo Teatino, per conservare memoria degli stessi beni dei Benedettini in quest'area. Da questa elencazione, l'assetto territoriale del Chietino, risulta caratterizzato ben prima dell'incastellamento, da strutture fortificate, quali castra e castella, che presentano una inequivocabile toponomastica longobarda (Piano la Fara, Fara S. Martino, Fara d'Archi, Fara Filiorum Petri, Guardiagrele, ecc..)

Nel loro complesso i castra e castella mensionati nel Memoratorium sembrano indicare il consolidamento di una zona di abitato fortificato agevolmente difendibile, non casualmente ubicata fra la Maiella e la valle del fiume Aventino da un lato e la vallata del Sangro dall'altro (per un maggiore approfondimento dell'argomento, si rimanda alla lettura delle opere dell'archeologo Andrea R. Staffa). Questi beni erano confluiti nel grande patrimonio cassinese a seguito delle donazioni dei grandi proprietari di stirpe Longobarda che si erano convertiti al Cristianesimo. Di Prata, ecco cosa si legge nel Memoratorium: << ... ecclesia S. Crucis in pertinentia de ipsa Roma, cum mille quingentis terre modiis et medietate ipsius castri de Casule cum pertinentiis suis; monasterium S. Pancratii cum tota pertinentia sua; Castellum de Prata et Gessi. >> (... chiesa di Santa Croce situata nel territorio della stessa Roma, con millecinquecento moggi di terra e metà del territorio dello stesso Castrum di Casoli con le sue estensioni e pertinenze; Monastero di San Pancrazio, con tutta la sua pertinenza; il Castello di Prata e Gesso). I luoghi citati sono abbastanza precisi da permettere un'accurata localizzazione:

1) La chiesa di Santa Croce, era una delle sei chiese che si trovavano a Laroma (attuale contrada di Casoli, un tempo Cluviae, antica città di origine carecina); le altre chiese erano, Santa Lucia, Santa Maria, San Nicola, San Pietro e San Silvestro, quest'elenco è tratto dalla raccolta di Pietro Sella "Rationes Decimarum Italie Aprutium-Molisum" le decime dei secoli XIII e VX" (1308-1326). Città del Vaticano 1936, ove sono menzionate  anche le decime del monastero di Prata con le relative notizie storiche;

2) L'agglomerato di Casoli;

3) Il monastero di San Pancrazio in Roccascalegna;

4) Il "Castello" di Prata, ubicato nell'odierna contrada di Casoli denominata Torretta situata fra Gessopalena e Civitella Messer Raimondo;

5) Infine il "Castello" di Gessopalena.
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   Molti autori, nel corso dei secoli, hanno documentato nei loro testi, le vicende e la storia di questo luogo "sacro" denominato Prata. Nel testo "Croniche ed antichità di Calabria" , Padova 1601 del Rev. Padre Fra Girolamo Marafioti (teologo dell'ordine dè Minori Osservanti), che per importanza è annoverato tra le cinquecentine e le seicentine del patrimonio bibliografico italiano, troviamo una delle prime menzioni stampate su libro dei "Santi Eremiti" calabresi, e precisamente, ne illustra le figure di S. Ilarione,  di S. Nicola Greco,  di  S. Falco, di S. Rinaldo e di S. Franco.

   Il materiale di cui si serve il Marafioti per le sue citazioni sono il frutto di alcuni scritti a lui pervenuti dai suoi amici della città di Benevento: << ... d'alcune altre scritture ritrovate da nostri amici in Benevento havemo raccolti questi seguenti Santi nati in questa parte di Calabria, cioè 'l gorioso Santo Ilarione Eremita ilquale partito da Calabria con sette compagni di questo medesimo paese andò in sannio nella valle beneventana nei convicini d'Abruzzo in Frentane, nella valle del Monte Aventino in un luogo chiamato Plata convicino à doi castelli, Casulo, e Lama & ivi con suoi compagni per longo tempo hà fatto vita eremitica, e fiorì in molta santità. Morto che fù Ilarione i Santi suoi discepoli vedendosi senza Pastore, e rettore, desideravano avere chi lor reggesse nella vita, e né costumi, ma per la molta humiltà ogn'uno rinontiava la prelatura, e il carico del governo: non di meno concordatisi l'uno coll'altro fecero patto di gittare le lancelle dentro una fontana e se nella lancella d'alcuno di coloro entrasse un pesce, il padreone della lancella accettasse la prelatura: gittate dunque le lancelle dentro l'acque, Dio mandò un pesce dentro la lancella di Nicolò, perloch'egli intendendo la divina volontà accettò d'esser prelato, con molta santità visse infino al centesimo anno della sua età. passò da questa vita 'l beato Nicolò nel tempo d'Eugenio IV sommo Pontefice.>>. Questo racconto è la testimonianza di una migrazione realmente avvenuta. Ma in quei manoscritti ricevuti dai suoi amici di Benevento, il Marafioti è incorso molto probabilmente, in un "errore" di trascrizione, scambiando Eugenio IV, che fu Papa dal 1431 al 1447, con il pontificato di Papa Sergio IV 1009-1012, poichè i Santi Eremiti ed ancor di più le comunità di Monaci di Rito Greco-Binzantino, operarono dal quinto al nono secolo, prima che avvenisse il "Grande Scisma" del 1054, infatti fino ad allora, la storia della Chiesa ortodossa si confondeva con quella della Chiesa universale, lo scisma, diede luogo alla separazione tra la chiesa occidentale (romano-cattolica) e quella orientale (ortodossa) e portò ad una repentina  trasformazione di numerosi Monasteri Basiliani in Benedettini. Anche l'insigne latinista abruzzese Ettore Paratore in "Bibliotheca Sanctorum", Grottaferrata 1967, asserisce che deve essere corretto l'errore di molti scrittori, come l'Ughelli, che nel parlare brevemente del Santo (S. Falco), ne pongono la morte nel secolo XV, sotto  il pontificato di Eugenio IV :<< L'origine dell'errore è da ricercare nella trattazione della vita di S. Nicola compagno di S. Falco che è stato confuso col beato Nicolò  di Forca Palena, fondatore dell'eremo di S. Onofrio a Roma, che visse appunto nel sec. XV e morì durante il pontificato di Eugenio IV. Il trovarsi l'attività di S. Falco unita nel ricordo a quella di altri santi eremiti della montagna abruzzese e il fatto che la sua figura appartiene al movimento medievale dei monaci basiliani calabresi (cf. D. L. Raschella, "Saggio storico sul monachesimo italo-greco in Calabria", Messina 1925) hanno determinato la nascita e la persistenza di leggende come quella che considera fratelli S. Falco, S. Giustino di Chieti, S. Cetteo di Pescara, S. Tommaso di Ortona ecc., distribuendoli come eremiti nelle grotte della Maiella. E. Paratore (Proposta di interpretazione della storia della cultura d'Abruzzo, in "Abruzzo" 1963, pag. 22) riferisce, su questa leggenda che considera erroneamente fratelli quei santi vissuti in età diverse, una lettera di F. Verlengia, il quale tra l'altro scrive: " penso che essa sia nata dalla preminenza che i santi stessi hanno nei culti particolari della provincia di Chieti, e del senso magico che per il popolo presenta il numero sette.  Nella valle dell'Aventino (sul cui corso superiore è sita appunto Palena), sempre in provincia di Chieti in correlazione dei sette santi, si parla delle sette Madonne, fra cui anche la Madonna dell'Altare di Palena" >>.

  Queste incoerenze  si evidenziano in modo inequivocabile come vedremo in seguito, nella data della traslazione del corpo di S. Nicola Greco, che fu trasferito da Prata a Guardiagrele dopo alcuni secoli dalla sua morte e precisamente il sette Agosto 1338, continua il Marafioti nel descrivere il Santo: << ... si riposa 'l suo corpo nella Chiesa di Vardagrela, dove da giorno in giorno per divina virtù dimostra innumerevoli miracoli, e la sua festività si costuma celebrare nel nono giorno d'Agosto, cioè, nella vigilia si S. Lorenzo martire. >> e infine termina il libro IV capitolo XIX con la descrizione degli altri santi eremiti: << ... il secondo compagnoo di S. Ilarione è stato 'l beato Falco il suo corpo, il cui corpo si riposa nella Chiesa di Palena, dove, i Sacerdoti questa antifona cantano continoamente in sua lode: "O proles  Calabriae splendor septem syderum, novum Vardagrelae decus nobile depositum, fer ò Iubar gratiae Christi benefitium, ne breve veniae tempues inane defluat." il terzo compagno è stato 'l glorioso beato Rinaldo, il cui corpo si riposa nella Chiesa di Falascosa, e la sua festività si suole celebrare nel di settimo di Maggio; il quaro compagno è stato 'l beato Franco il cui corpo si riposa nella Chiesa di Francavilla e la sua festività si costuma celebrare nel medesimo giorno settimo di Maggio. Delli nomi de gl'altri non hò potuto infino ad hoggi havere certa notitia.>>

   Il G. Marafioti, è stato sicuramente un punto di riferimento storico, per tutti gli autori che si sono dedicati al racconto delle vicissitudini di questi Santi, i suoi errori hanno creato confusione intorno alla comunità di Monaci che si era insediata nel Castellum de Prata e la storia della loro presenza monastica, è rimasta ancora oggi sospesa tra mito, leggenda e realtà religiose, ormai consacrate attraverso rituali secolari, nei luoghi dove si celebra il loro Culto. 

     Dalla lontana Calabria giunsero in queste terre, nel feudo di Prata, in un'unica migrazione o in più migrazioni coeve, sotto la dotta e Santa guida del loro Archimandrita Ilarione, alcune comunità di monaci basiliani che officiavano secondo il Rito Bizantino-Greco Ortodosso. Nei loro conventi calabri, si dedicavano allo studio della teologia, della storia, della filosofia, della botanica, della medicina e della dottrina, insegnata dai Santi Padri della Chiesa, volta alle pratiche di pietà e di ascetismo, senza trascurare il lavoro ed il contatto con le popolazioni con cui vivevano.

      In certe epoche il monachesimo rappresentava l'aspetto carismatico della Chiesa che col tempo andava assumendo una rigida costituzione istituzionale e giuridica. I cristiani, che s'impegnavano nella vita ascetica, erano animati dall'anelito a corrispondere col massimo della propria donazione all'amore di Dio. I fondatori di eremi, laure e cenobi erano sospinti ad abbandonare tutto, presi da quella profonda inquietudine che si placa solo nella ricerca di Dio. Il loro carisma era una forza vivente ricevuta dall'alto che produceva copiosi frutti spirituali. Le origini del monachesimo si collocano nelle regioni cristiane d'oriente, dalle quali fu esportato in occidente, dove, pure, esistevano esperienze autoctone. 

  In "Memorie istoriche del Sannio" (I edizione edita in Isernia nel 1644), Giovanni Vincenzo Ciarlanti, nel descrivere i monaci dell'osservanza basiliana scampati a sicuro martirio in Calabria per l'avanzare delle orde saracene, ne fa una raffigurazione molto toccante : << ... furono otto santissimi Eremiti, i quali come tante lucidissime stelle illuminarono con le loro virtù e Santa vita gli Abruzzi, il contado di Molise, ed altri convicini luoghi ...>>.  

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  S. Basilio (Cesarea di Cappadocia 330 ca-379), padre della chiesa greca, uomo di grande cultura e straordinaria capacità umana, perfezionò l'istituzione cenobita, garantendone la definitiva affermazione nel mondo cristiano. Le opere di San Basilio, furono il punto di riferimento del monachesimo denominato con il suo nome. Il suo ideale era permeato di profondo spirito ecclesiale, che induceva il monastero a valorizzare anche una certa attività assistenziale. Merita d'essere ricordata qui l'esperienza del geniale Basilio che progettò ed edificò la famosa Basileide vicino alla sua diocesi di Cesarea, la città della carità, la città di tutte le opere di misericordia saggiamente organizzate (un centro ospedaliero fuori della città, con assistenza medica specializzata) primo Policlinico in nuce. Scrive Casalnuovo P. Roberto in "Tracce e riflessi del Monachesimo Italo-Bizantino" Lecce 1976 : << E' sul piano della "nuova anima" che viene la problematica del lavoro, improntata all'amorevole comprensione con l'uomo del lavoro, quello più vicino al monaco, "il colono" che alla terra monastica dà il suo sudore, ma che non lavora per un signore feudale, arido ed egoista, ma per una entità collettiva, consapevole dei redditi che vanno a beneficio dei poveri, dei pellegrini, dei malati, in opere che si saldano ad un culto perenne, gloria di Dio cui si inneggia perpetuamente sotto la volta delle grandi Chiese o degli umili oratori. >> I monaci basiliani oltre ai lavori agricoli compivano anche attività artigianali. Ricordiamo che la dignità del lavoro è tutta cristiana e che l' "ora et labora" prima d' essere benedettino è basiliano. Nelle sue omelie San Basilio si scagliò contro le cause della povertà e l'ingiusto arricchimento. Dall'insegnamento costante dei Padri si comprende che le risorse economiche devono servire a tutti e non diventare un lusso per pochi, il povero ha diritto al necessario per vivere, il ricco può usare dei suoi beni, ma non abusarne. D'altronde, le grandi ricchezze - ripetono i Padri - sono sospette: da dove vengono, se non dall'ingiusto sfruttamento dei poveri? E perciò, quello che ai poveri è stato tolto ai poveri va restituito (San Basilio).

   In "Historia della città di Chieti" di Girolamo Nicolino, Napoli 1657 abbiamo una dettagliata descrizione della comunità religiosa che evangelizzò la valle dell'Aventino nel Feudo di Prata in cui essi si stabilirono ed edificarono un vero Monastero. Molto interessante e documentata appare la narrazione di S. Nicola Greco:  << ... il Beato Nicola, cognominato Greco, perchè fu Monaco di Greca natione, si trova scritto, che venne dalle parti di Calabria, sotto la guida di un S. Abbate, nominato Ilario con altri 28. Monaci,  i  quali si partirono da

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quei paesi per fuggire la crudeltà dé Saraceni  che  in  quei tempi   usciti dall' Africa s'erano, impadroniti di quelle parti, e fieramente tiranneggiavano, e vennero ad abitare questi Santi Monaci nella Diocesi  Theatina, alla sinistra riva del fiume Aventino, dove vicino al Castello di Prata, giurisdizione di Transmodo, allora Cote di Chieti, edificarono un monasterio, dove con odore di molta santità e asprezza di vita vissero gran tempo; ma fra di loro principalmente risplendeva S. Nicola, per la virtù dell'astinenza mirabile, come quello, che perpetuamente digiunava ogni giorno, fuor che le Domeniche, portava continuamente il cilizio, era molto assiduo nelle orazioni, e non meno ardente nell'imitare Cristo Crocifisso, la cui immagine sempre portava al petto, e persuadeva la penitenza ai peccatori con mirabile energie; onde era stimato quasi un altro S. Giovanni Battisti, e la sua santità in più modi, mentre visse, e dopo morte, volle Dio che fosse manifestata per miracoli, come fu quello che essendo andato in Roma con i suoi monaci a visitare Limina Apostolorum, venutegli incontro sette spiritati, con l'orazione in un subbito li liberò. Rese finalmente l'anima piena di buone opere al suo creatore allì 13. di Gennaro nel Castello di Prata, di cui ancor oggi si veggono i vestigi alla sinistra riva del fiume Aventino sotto la Taranta, et Civitella, et dall'altra, parte del fiume a dirimpetto il Gesso et ivi fu onorevolmente sepolto et al suo sepolcro furono operati molti miracoli, che sarebbe longo a raccontarli, dopo il corso di molti anni il suo corpo fu trasferito da Prata alla Guardiagrele e collocato per divin miracolo nella Chiesa di San Francesco, sotto l'Altar maggiore, dove ancor oggi si trova per opera di Napolione Orsino, allora conte di Manoppello et della Guardia nel 1343. Alli 7. di Agosto ...>>. Il G. Nicolino con mirabile dovizia di particolari ci fa rivivere così la forte carica spirituale che emana questo Sacro luogo. 

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  "Glorie di S. Orante" del sacerdote Gaetan' Antonio De Benedictis , Roma 1756, è un testo ricco di riferimenti bibliografici nelle prime due pagine ma con lacune, inesattezze ed omissioni riguardanti l'epoca, l'ordine della comunità monastica a cui appartenevano questi monaci e addirittura posticipa di ben quattro secoli e mezzo il loro insediamento nel Castellum de Prata. Egli invece descrive con grande precisione i toponimi ove il Beato Orante è vissuto e pare come se l'autore avesse  peregrinato  nei  luoghi  sacri  del Feudo di Prata : 

<<... proseguendo eglino da un luogo all'altro di viaggio, giunsero a fermar l'Albergo nelli Abruzzi tra li popoli Marruccini, e Peligni o sian di Chieti, e di Solmona, non lungi dal noto Fiume Aventino, ovvero Fiume Verde della Fara di S. Martino presso Casoli che oggi è Ducea. Dindi scorrevano ne' luoghi d'intorno persuadendo la Penitenza agli Uomini: gran numero dei quali si ricrebbe de' propri vizi in udendo le trombe della loro Predicazione. >>

  Il canonico C. Falcocchio in op. cit. narra della vita del Santo e dei suoi sette compagni, il suo racconto ad un attento esame rivela incongruenze  di luoghi, periodi  storici e Santi che non hanno una reale appartenenza all'interno dell'originale comunità monastica italo-greca di cui si sta parlando. Secondo il Falcocchio in op. cit., S. Stefano del Lupo: << ... fece penitenza nele grotte della Majella ove ne morì. Il suo corpo fu trasferito nella chiesa di S. Spirito, situata in detta montagna nell'anno 1591,  se  ne celebra  la festa ai 9 luglio. >> ,  

      

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noi sappiamo con certezza  invece, che S. Stefano del Lupo, nacque a Carovilli (Isernia) più di un secolo dopo, appartenne all'ordine dei benedettini e morì nel monastero di S. Pietro di Vallebona da lui fondato. Per maggiori informazioni su S. Stefano, si rimanda al sito www.santostefanodellupo.it.  L'altra inesattezza riguarda S. Giovanni, che secondo  il Falcocchio in op. cit : << ... tiene onorato sepolcro in Rocca S. Giovanni in venere presso l'imboccatura del Sangro, in Diocesi di Triventi  prendendo la terra il nome del Santo e se ne celebra la festa ai 26 Agosto >> mentre, dalle notizie emerse nel corso della presente ricerca, sappiamo che nella Comunità Monastica di Prata, sono esistiti quasi sicuramente due S. Giovanni, di cui uno Eremita vissuto a Rosello.

    Appaiono invece più significative da un punto di vista storico, le note di cui correda il piccolo volume e la ricca bibliografia di testi storici citati, dei quali autori, presumibilmente egli si serve per scrivere questa opera: Il padre Gesuita Daniele Papebrochio, tomo II degli "Atti dei Santi"; l'Abate Muzio Febonio (1597- 1663),  "Vita di S. Berardo Cardinale del titolo di S. Grisogono e di altri Santi della Diocesi de' Marsi", Roma 1663; Monsignor Corsignani, "Reggia Marsicana", Napoli 1738; Leone Marsicano (detto anche Leone Ostiense), "Cronica monasterii Casinensis", 1075,  libro 27° Cap. X e nota del capitolo II del medesimo libro; Filippo Ferrario, "Catalogo dei Santi d'Italia", Milano 1613,  pag. 497; Girolamo Marafioti, "Croniche ed antichità di Calabria", Padova  1601; G. Ciarlanti, "Memorie storiche del Sannio", Isernia 1644; Emilio De Matteis (1631-1681), un manoscritto delle "Vite de' Santi della Diocesi di Valva e Sulmona"; per finire, due agiografi napoletani del 500: Paolo Regio, "Seconda parte delle Opere Spirituali", Napoli 1592 e Davide Romeo, "Vita dei sette Santi protettori di Napoli", Napoli 1577. 

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Per completare la visione panoramica dei testi fin qui citati, non poteva mancare la preziosa opera "Brevi notizie intorno alla fondazione del Santuario di Santa Reparata V. e M. in Casoli" - Chieti 1853, del nostro confratello Mosé D'Amico, colto Reverendo Sacerdote di Casoli, in quell'epoca Parroco funzionante nella cittadina di Furci, il quale dedica con ampio risalto, alcune pagine alla comunità di monaci italo-greci che operava nel Castellum de Prata. In op. cit. egli scrive: <<Così un pugno di gente ci precedeva nelle belle intraprese, che sono il decoro alla patria; e come noi la civiltà progredita e la coltura muovono

potentemente al nobilitamento  de'  patri  templi,  a   quelli  eran forte incentivo i miracli della Santa, i pellegrini che in gran numero e da parti lontanissime traevano al suo Santuario, e finalmente la infocata parola e lo zelo per la casa di Dio di ben otto Santi, che viveano nel vicino Castello di Prata (c). (...) Se vogliamo aggiustar fede a Monsignor Corsignani, e al dotto di patrie cose signor Maranga di Lanciano, che lo raccoglie dal Mattei, comprò quel luogo S. Ilarione, capo di quegli otto anacoreti venuti di Calabria, da Trasimondo Conte Teatino per cento monete d'oro. Nel che si vede proprio il dito della provvidenza la quale volle serbar le nostre contrade della purità del domma cattolico. (...)  Siccome nel pari è certo che Napolione II nell'anno 1343 abbia traslato il corpo di S. Nicola Greco dalla torre di Prata (Regia Marsicana, Parte seconda, pag. seconda), dove fra noi si addita la cappellina diruta col titolo di S. Nicoletto, al Monistero anche dagli Orsini fondata, de' PP. Conventuali di Guardiagrele. (...)

Note - (c) Di questi otto Santi fan parola il Marafiotti nelle croniche delle Calabrie; il Ciarlanti nelle memorie storiche del Sannio; il Febonio nelle vite dei Santi de' Marsi; l'Ughelli nella sua Italia sacra ec. I quali Storici son tutti concordi nel riferire come questi Santi si nutrissero di erbe; ed accesi di santa carità, la purezza delle dottrine vangeliche, come fossero Apostoli, col ministero della parola tutelassero. Salvo due che pellegrinarono nello Stato romano, della cui morte perciò i citati scrittori non fanno menzione; gli altri sono: S. Ilarione (diverso dall'Anacoreta della Tebaide) il cui corpo si venera in Bitonto; S. Orante il cui corpo si venera in Ortucchio; S. Nicola Greco (vissuto 100 anni) il cui corpo si venera in Guardiagrele; S. Falco  il cui corpo si venera in Palena; S. Franco il cui corpo si venera in Francavilla; S. Rinaldo  il cui corpo si venera in Fallascoso.>>

   La comunità che si era insediata nel feudo di Prata, diffondendosi ed evangelizzando buona parte dell'Abruzzo,  accrebbe di numero e ne beneficiarono i contadini delle nostre zone: Casoli, Gessopalena, Civitella Messer ai Monti, Torricella, Lama dei Peligni ecc.   

  Quei buoni monaci, non perdevano occasione di avere frequenti contatti con le nostre genti, sia in occasione di feste religiose con prediche, tridui, novene, sante messe, sia con l'andare in giro per le loro case, portando a tutti una parola di fede, di speranza e di amore secondo lo spirito del Vangelo. Non si limitavano solo alla cura delle anime, sovente mettevano a disposizione dei contadini e dei loro animali anche la loro conoscenza in campo medico ed erboristico, curandoli, in una visione perfettamente integrale di anima e corpo. Intorno all'anno mille maturi di anni e di esperienze cambiarono le loro esistenze, diventando eremiti e spargendosi in tutta la regione. 

Questi monaci, per restare più vicini a Dio in spirito di contemplazione e penitenza, chiedevano il permesso ai loro compagni e si allontanavano dal Monastero per dirigersi verso mete di contemplazione, in cui tendevano a mettere stabili radici e a dare dignità a quei luoghi, per quanto umili fossero (vedasi ad esempio, la vicina grotta di Sant' Angelo nel comune di Palombaro). I loro eremi erano grotte naturali di cui la nostra Maiella abbonda e così continuarono la loro esistenza terrena dialogando con 

     

L'Eremo di  Grotta Sant'Angelo

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Dio senza trascurare i rari incontri con i compagni che attratti dalla fama della loro santità li cercavano raggiungendoli nelle grotte. Ebbe così origine quel particolare fenomeno denominato "Movimento Eremitico Abruzzese" legato alla Maiella e alle valli limitrofe, di cui fa riferimento nel saggio storico - antropologico, Padre Donatangelo Lupinetti  - "Sant'Antonio Abate" (Lanciano 1959) : << ... chi non ha sentito parlare degli eremiti e degli eremi della Majella e del Morrone? Si pensi allo storico eremitaggio di "Santo Spirito", alla "Badia Morronese" e a tutti i Celestini che vi dimorarono dal loro santo Fondatore in poi (...) per scendere a qualche esempio, ricordiamo in particolare: 1.- i famosi Santi Sette Eremiti che la tradizione vuole giunti dalle Calabrie e stabiliti nella Valle dell'Aventino sul versante orientale della Majella. E' vero che sul loro conto si desiderano documenti e notizie più precise; ma allo stato delle cose, per noi i loro semplici nomi sono già un poema: attestano per ininterrotta "tradizione locale", l'esistenza di uno straordinario fenomeno che colpì fortemente le popolazioni di quelle zone. >>


Seguono : 

Capitolo II  - I monaci di orgine italo-greca di Prata >>

Capitolo III - Il Castellum de Prata dal XV sec. ad oggi >>

C o n c l u s  i o n i  >>


Pubblicato il 06-11-2004


Redazione casoli.org

 

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Autore: E. Cipolla - Coautrice: M. C. Ricci - Copyright 2004-2012

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